«Gli eventi del 6 e 7 giugno segnano una frattura nella sinistra italiana sul rapporto con il mondo ebraico perché la manifestazione di Roma volta le spalle ad Israele mentre quella di Milano sostiene gli Accordi di Oslo sui “Due popoli e due Stati”». A parlare è Maurizio Molinari, giornalista e scrittore, già direttore di Repubblica e La Stampa, studioso del rapporto fra politica ed ebrei nel nostro Paese, a cui ha dedicato due libri: “Ebrei in Italia, un problema di identità (1870-1938)” (Giuntina) e “La sinistra e gli ebrei in Italia (1967-1993)” (Corbaccio).

Le manifestazioni di Milano e Roma come cambiano il rapporto fra la sinistra e gli ebrei in Italia?
«A Piazza San Giovanni il tema è stato “Free Palestine”, accusando solo Israele per il “massacro di Gaza” fino al punto di parlare di “genocidio” e “pulizia etnica” dal palco. Al Teatro Parenti il focus è stato invece su “Due popoli e due Stati”, attribuendo la guerra di Gaza al conflitto Hamas-Israele e denunciando l’antisionismo come moderno antisemitismo. La differenza, di temi e termini, descrive l’esistenza di due sinistre: da un lato chi sceglie un approccio di parte al conflitto in Medio Oriente, dall’altro chi difende gli Accordi di Oslo. Inevitabili le conseguenze nel legame con il mondo ebraico: Piazza San Giovanni lo dimentica, il Teatro Parenti lo rafforza. Il risultato è la riapertura della ferita politica fra sinistra ed ebrei in Italia».

Perché il legame fra ebrei e sinistra torna ad essere a rischio?
«Perché la manifestazione del 7 giugno a Roma promossa da Pd, 5 Stelle e Avs ha spazzato via oltre tre decenni di impegno, politico e morale, dedicati da leader e partiti progressisti a sanare la ferita causata dalla svolta antisionista del Pci del 1967».

Di che ferita si tratta?
«I comunisti durante la Resistenza si erano battuti contro il nazifascismo, entrando nella memoria degli ebrei come una parte di quell’Italia di minoranza che scelse di sfidare chi li perseguitava. E dopo la fine della guerra il Pci fu dalla parte di Israele al momento dell’indipendenza nel 1948. Così come lo fu il Partito socialista. Eravamo nella Guerra Fredda, Israele era nel campo dell’Occidente ma la sinistra italiana, pur sul fronte opposto, dimostrava di comprendere il sionismo come risorgimento nazionale ebraico. Anche perché chi guidava Israele erano leader, partiti e movimenti sionisti di ispirazione socialista. Tutto ciò si incrina nel 1956 quando l’Urss sostiene l’Egitto nella crisi di Suez e finisce, in maniera brutale, il 5 giugno del 1967 allorché il Cremlino si schiera a fianco dei Paesi arabi nella Guerra dei Sei Giorni, accusando Israele di essere “frutto del colonialismo”, coniando il paragone “sionismo-razzismo” e lanciando la campagna “antisionista”. Mosca puntava sull’antisionismo come versione dell’anticolonialismo per reclutare i Paesi arabi nel blocco sovietico e i partiti comunisti occidentali la sostennero».

L’antisionismo strutturalmente insito nella sinistra nasce allora?
«Sì, l’antisionismo nasce in quel momento: è uno strumento della propaganda sovietica. In Italia gran parte degli ebrei si sentirono traditi dalla scelta del Pci e l’allontanamento continuò per oltre venti anni. Anche per il sostegno del Pci per i gruppi terroristi arabo-palestinesi che attaccavano Israele. L’antisionismo spinse il Pci fino ad ignorare la battaglia per la libertà di emigrare degli ebrei sovietici. Dentro il Pci figure come Umberto Terracini, presidente della Costituente, non cessarono mai di premere per una correzione di rotta ma senza esiti significativi. A descrivere la drammaticità della rottura fra ebrei e sinistra nel 1967 fu la scelta di Fausto Coen di lasciare, con grande dignità, la direzione di “Paese Sera” davanti alle pressioni di Botteghe Oscure per piegare le notizie di cronaca sul conflitto al sostegno ideologico a favore dei Paesi arabi».

In quali occasioni si tentò di rimarginare questa frattura?
«La coincidenza fra l’implosione dell’Urss nel 1991 e la firma degli Accordi di Oslo nel 1993 portò il partito di Giorgio Napolitano, Achille Occhetto e Piero Fassino a riallacciare il legame antico il mondo ebraico. I loro viaggi in Israele segnarono l’inizio di questo percorso che Giorgio Napolitano, una volta divenuto capo dello Stato, suggellò parlando con grande chiarezza, nel 2007, dell’”antisemitismo travestito da antisionismo”. Un tema sul quale anche il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, è intervenuto ricordando l’uccisione del piccolo Stefano Tachè nell’attentato alla Sinagoga di Roma del 9 ottobre 1982 da parte di un commando arabo-palestinese che colpì gli ebrei italiani in quanto “obiettivo sionista”. L’assassinio di Stefano Tachè conferma che chi odia Israele uccide gli ebrei».

Ci sono delle similitudini fra il 1982 ed oggi?
«Una settimana prima dell’attentato del 9 ottobre, un gruppo di estremisti affisse sui cancelli della sinagoga di Via Garfagnana uno striscione con la scritta “Bruceremo i covi sionisti”. Poco tempo prima un corteo dei sindacati aveva deposto una bara vuota davanti alla Sinagoga Maggiore di Roma. Il centro della capitale era coperto di scritte che paragonavano la croce uncinata alla stella di David. Quel clima è tornato oggi con le scritte “Giustizia per Gaza” sulla sinagoga di Bologna, l’assalto dei pro-pal al capo della Comunità di Torino durante il Salone del Libro e la campagna di propaganda sul “genocidio” per imputare ogni sorta di crimine ad Israele al fine di delegittimarne l’esistenza. L’uso dei social da parte dei sostenitori di Hamas rende tale atmosfera più aggressiva. E questo spiega perché oggi il numero di offese, abusi ed insulti contro gli ebrei in Italia è assai più alto rispetto ad allora».

Cosa c’è al cuore della campagna antisionista?
«La bugia del “genocidio” attribuito a Israele nella Striscia di Gaza. Tiene assieme la delegittimazione di Israele e la banalizzazione della Shoah. Non ha alcun fondamento fattuale. È, semplicemente, una bugia che genera odio».

Una bugia può essere tanto nociva?
«La Storia ci insegna che l’antisemitismo è alimentato dalle bugie. Il deicidio era una bugia, la colpevolezza di Dreyfus era una bugia, il popolo-classe di Marx era una bugia, gli ebrei sotto-uomini dei nazisti era una bugia. Ora Hamas cavalca la bugia del “genocidio” per fomentare odio, reclutare e legittimare il pogrom del 7 ottobre. Tutto ciò non ha nulla a che vedere con la difesa dei diritti dei palestinesi. Lo slogan “Free Palestine” significa per Hamas una Palestina “libera da ebrei” in maniera analoga a come i nazisti usavano “Judenrein” per perseguire una Germania e un’Europa “senza ebrei”».

Ma criticare il governo Netanyahu non significa essere antisemiti…
«Criticare il governo israeliano è legittimo, quasi metà degli israeliani lo fa, scendendo in strada ogni settimana, spesso con toni e termini assai più aspri di molti osservatori stranieri. I leader dell’opposizione israeliana accusano Netanyahu di aggredire con la riforma della giustizia le fondamenta del sistema democratico, gli imputano di abbandonare gli ostaggi e contestano la sua guida della guerra a Gaza, c’è anche chi solleva gravi accuse all’operato dell’esercito ma non parlano né di “genocidio” né di “pulizia etnica”. Quanto abbiamo visto a Roma è tutt’altro: accusare solo Israele del pesante bilancio di vittime della guerra a Gaza, dimenticando le responsabilità di Hamas che usa sistematicamente un’intera popolazione civile come scudi umani, significa essere di parte, allontanarsi dagli Accordi di Oslo».

Quale è il vulnus più profondo che si è creato con gli ebrei italiani?
«La decisione di Giuseppe Conte di chiedere agli ebrei italiani di condannare pubblicamente Israele. La richiesta del “Davide discolpati”, più volte avanzata dall’ex premier, individua negli ebrei italiani un’entità separata dal resto della popolazione con un linguaggio che viola lo spirito, se non la lettera, dell’articolo 3 della nostra Costituzione».

Insomma, sta dicendo che ci sono due sinistre su Israele?
«È un dato di fatto. Ripropone sul Medio Oriente la differenza fra massimalisti e riformisti che accompagna spesso la parabola sinistra italiana».

Entrambe le manifestazioni hanno però chiesto il riconoscimento dello Stato di Palestina…
«Ma per arrivarci l’unica strada è il rispetto degli Accordi di Oslo sul riconoscimento reciproco fra Israele e Palestina. Imporre il riconoscimento da fuori sarebbe il più grave degli errori perché, senza il patto reciproco, porterebbe solo ad aumentare i conflitti. Questa è stata la posizione di tutte le amministrazioni Usa sin da Oslo, da Clinton a Bush, da Obama a Biden fino a Trump».

Eppure c’è chi obietta che l’Italia dovrebbe tornare a ripetere le scelte filo-arabe di Giulio Andreotti e Bettino Craxi…
«Andreotti e Craxi si illusero che schierandosi contro Israele l’Italia sarebbe stata decisiva in Medio Oriente. In realtà il risultato fu l’opposto: quando Israele e Olp decisero di parlarsi, scelsero un Paese davvero neutrale come la Norvegia sotto l’egida degli Stati Uniti. L’Italia venne ignorata perché Andreotti e Craxi l’avevano trasformata in un attore di parte».

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Ph.D. in Dottrine politiche, ha iniziato a scrivere per il Riformista nel 2003. Scrive di attualità e politica con interviste e inchieste.